Come cambiare i fattori endogeni del mindset

Eccoci affrontare il delicato tema di come riuscire a cambiare il nostro mindset, concentrandoci dapprima sulla parte interna, i fattori endogeni che lo governano.

Per realizzare un effettivo mindset change, è infatti necessario intervenire su uno o più di questi elementi.

Per modificarli, seguendo il nostro impulso volitivo, la conditio sine qua non è quella di vantare un certo controllo dei fattori che caratterizzano la nostra forma mentis, perché anche se li avessimo ben chiari in testa ma non sapessimo gestirli, entreremmo in una fase d’impasse.

Capire da cosa e come il nostro mindset è formato, comprendere le ragioni per cui, in un determinato momento, non è adatto a garantirci una certa trasformazione, a farci raggiungere un obiettivo specifico, non sarebbe sufficiente a generare i mutamenti desiderati se non fossimo soprattutto in grado di padroneggiarne gli elementi costitutivi.

Nel coaching, così come nella formazione, l’aspetto fondamentale è proprio quello di aiutare il Cliente a fare un salto metacognitivo, a prendere cioè coscienza e controllo dei propri processi interni, finalizzandoli poi alla realizzazione del cambiamento desiderato.

Per compiere questo balzo, bisogna capire come è fatto il mindset, dove e come agire, dove trovare e come controllare le leve che ci consentono di generare il cosiddetto “effetto leverage”: ossia utilizzare un punto preciso, un fulcro, dal quale sollevare e finalmente azionare il meccanismo del cambiamento.


Il “focus”, ovvero l’attenzione orientata in una certa direzione, è senza dubbio uno di quegli aspetti che possiamo governare senza troppa fatica, che ci fa sentire di avere in pugno le redini del nostro stesso cambiamento.

Mutare dal punto di vista del focus, ci permette intanto di apportare una prima modifica al nostro mindset.

Si tratta, banalmente, in termini di semplice affermazione, di spostare la nostra attenzione da un punto ad un altro. Nella realtà, però, le affermazioni che appaiono più scontate, spesso celano insidie pericolose.

In termini dialettici, infatti, risulta semplicissimo spostare il focus, è uno dei primi consigli che dispensiamo ai nostri amici: «Dai, cambia focus, non fissarti sempre sulla stessa cosa, altrimenti non ne vieni fuori, rischi d’impazzire! Prova a vederla in un’ottica diversa!».

Se da un punto di vista squisitamente verbale, sollecitare un cambiamento di focus è piuttosto elementare, nella pratica si tratta di uno step difficile da raggiungere. La ragione è che il focus ha una sua base, decisamente ampia, di inconsapevolezza: una parte importante della nostra attenzione fluttua da una parte all’altra in maniera del tutto involontaria, automatica.

È come se ormai avessimo costruito dei meccanismi che girano in modalità autoplay (come quei software che si auto-lanciano senza che nessuno tocchi alcun tasto), facendo sì che il nostro mirino “attenzionale” si sposti dal punto A al punto B e inquadri determinate cose a scapito di altre.

Alla base di questo fenomeno, c’è il difetto intrinseco del “deficit attenzionale”. Non avendo tutti noi risorse mentali consapevoli sufficienti a prestare sempre attenzione ad ogni cosa, siamo continuamente costretti a falciare molto di ciò che la realtà ci offre, riducendolo, minimizzandolo, semplificandolo, “zippandolo” – come direbbe qualche informatico. Il risultato è quello di ottenere elementi minimi, essenziali, che col tempo finiscono per diventare dei veri e propri “mirini” automatici che, in completa autogestione, decidono dove puntare di volta in volta la nostra attenzione.

Potrebbero verificarsi casi in cui sia un mindset genitoriale a prevalere, un focus da padre (o da madre, ovviamente) di famiglia, il che significherebbe ad esempio prestare attenzione a come gli altri si comportano con i figli, dare importanza prioritaria a questa sfumatura del loro atteggiamento, pur non essendo certamente l'unica osservabile.

Un eventuale focus così sensibile alla relazione di una persona magari appena conosciuta con i suoi figli, spingerebbe l’osservatore a ricavarne un giudizio parziale, influenzato per la gran parte proprio dal modo di relazionarsi con i suoi bambini. 

Un così preciso “mirino da padre”, che gli facesse giudicare una persona attribuendo un’esagerata rilevanza all’aspetto del rapporto genitori-figli (trascurando inevitabilmente tutte le altre prospettive), sarebbe responsabile di una prima deformazione del mindset “genitoriale”, che potrebbe concretizzarsi in un’opinione positiva, oppure fargli considerare l’altro in maniera del tutto negativa, magari per un rapporto troppo freddo e distaccato o troppo molle e permissivo con i piccoli.  

Ecco quindi innescarsi altri meccanismi, più o meno profondi, più o meno consapevoli, come lo sono le credenze. Non si tratta più solamente di attenzione focalizzata su un punto specifico del comportamento altrui, ma entra in gioco la convinzione secondo la quale, ad esempio, un genitore troppo tollerante e indulgente sarà responsabile di ragazzi viziati e disadattati, incapaci di forgiare le loro vite e di integrarsi nella società.

Questo eventuale convincimento, potrebbe aver messo radici così profonde da non permettere più nemmeno a noi stessi di essere consapevoli di cosa e quando l’abbia originato.


In ambito di mindsetting, non si tratta di stabilire se queste convinzioni siano giuste o sbagliate. Un coach e un formatore non ragionano in questi termini ma si pongono in una condizione metacognitiva. Il loro scopo è permettere alle persone di avere sempre piena coscienza di quello che sta accadendo e di come ogni aspetto, anche minuzioso, possa giocare brutti scherzi rispetto al loro modo di essere, di vivere, all’obiettivo di riuscire a cambiare o di non riuscirci affatto.

A quanto sopra, dobbiamo aggiungere la componente delle conoscenze.

Lo stesso genitore, analizzato attraverso gli occhi di un esperto in pedagogia o di uno psicologo infantile, riceverebbe probabilmente una lettura completamente differente. Anche l’esperto potrebbe orientare il suo focus sul comportamento genitoriale, aggiungendo a questo però, la deformazione professionale da psicologo o pedagogo, con la summa di informazioni tecniche utili a spostare il suo focus pure sulle dinamiche familiari del paziente, con un atteggiamento conseguente di maggiore comprensione, sia delle ragioni dei genitori che dei figli.

Questo non vale esclusivamente nel contesto della famiglia ma anche negli affari, nel mondo dello sport, … l’approccio metacognitivo è applicabile ad ogni ambito.

Si tratta di indossare delle lenti, dei filtri specifici, che ci permettono di analizzare il nostro comportamento e quello degli altri in maniera metacognitiva.


Dopo focus, credenze e conoscenze, è il momento dei valori della persona.

Anche questi ultimi giocano un ruolo assai rilevante nell’influenzare il focus. Questa risorsa, questa attenzione, infatti, deve essere ottimizzata, ben spesa, dato lo scarso budget rappresentato da un’esigua capacità attenzionale da parte di tutti.

Avendo un budget molto ridotto, in termini di capacità attenzionale, dobbiamo necessariamente sfruttare al meglio gli elementi che possono influenzarlo, portandolo alla migliore resa possibile. A questo scopo, vengono in nostro soccorso proprio risorse quali le credenze, le conoscenze e i valori. Delle prime due abbiamo già detto.

I valori rappresentano la risposta al perenne quesito esistenziale del “cosa è più importante per noi, quali sono le nostre priorità”. Essi influenzano in maniera considerevole il modo in cui orientiamo il nostro mirino, determinano le cose che contano di più nella nostra vita.

Un ipotetico “manager valoriale”, gestisce il limitato budget dando delle priorità, a loro volta individuate dal nostro personalissimo sistema di valori. E così facendo, trascura necessariamente alcune cose per occuparsi di quelle considerate di maggiore importanza perlomeno nella scala valoriale dell'individuo che “amministra”.

Completa e continua